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Gli va lo stuol de' semplicetti intorno,
E gli dan co'flagelli animo, e forza :
Tal per mezzo del Lazio, e de'feroci
Popoli fuoi vagando infana andava
La Regina infelice ; e quel che poscia
Fu d'ardire, e di scandalo maggiore ;
Di Bacco fimulando il nume, e'l coro
Per tor la figlia a i teucri, e le fue nozze
Distornare, o’ndugiare ; a i monti ascesa
Ne le felve l'afcofe. O Bacco, o Libero
Gridando Eùoè: questa mia vergine
Sola a te fi convien, fola a te serbasi.
Ecco perte nel tuo coro s'esercita,
Per te prende i tuoi tirfi, a te s'impampina,
A te la chioma fua nodrifce, e dedica.
Divulgafi di ciò la fama intanto

Fra le donne di Lazio, e tutte infieme
Da furor tratte, e d'uno ardore accefe,
Saltan fuor de gli alberghi a la foresta.
Ed altre ignude i colli, e sciolti i crini
D'irfute pelli involte, e d'afte armate
Di tralci avviticchiate, e di corimbi,
Orrende voci, e tremoli ululati

Mandano a l'aura. E la Regina in mezzo

A tutte l'altre una facella in mano
Prende di Pino ardente, e l' Imeneo
De la figlia, e di Turno imita, e canta.
E con gli occhj di sangue, e d'ira infetti
Al cielo ad or ad or la voce alzando :
Uditemi (dicea) madri di Lazio
Quante ne fiete in ogni loco, uditemi.
Se può pietate in voi, se può la grazia
De la mifera Amata, e la miferia

Di lei, ch'ad ogni madre è d'infortunio;
Difvelatevi tutte, e fcapigliatevi
Eùoè a quefto facrificio

Ne venite con me, meco ululatene.

Così da Bacco, e da le furie spinta Ne gia per felve, e per deserti alpestri La Regina infelice, quando Aletto, Ch'affai gia difturbato avea il configlio Di Re Latino, e la fua reggia tutta ; Ratto fu le fosc'ali a l'aura alzoffi. E là ve'gia d'Acrifio il feggio pofe L'avara figlia, ivi dal vento esposta A l'orgogliofo Turno fi rivolse. Ardea fu quella terra allor nomata, E d'Ardea il nome infino ad or le refta,

Ma non gia la fortuna. In questo loco
Entro al fuo gran palagio, a mezza notte
Prendea Turno ripofo; allor ch' Aletto
Vi giunfe, e'l torvo fuo maligno aspetto
Con ciò ch'avea di furia, in fenil forma
Cangiando, raggruppoffi, incanutiffi,
E di bende, e d'ulivo il crin veloffi.
Calibe in tutto feffi; una vecchiona,
Ch'era facerdoteffa, e guardiana
Del tempio di Giunone. E'n cotal guisa
Si pose a lui d'avanti, e così diffe:

Turno adunque avrai tu fofferte indarno
Tante fatiche. E questi frigj avranno
La tua sposa, e'l tuo regno? Il Re, la figlia,
E la dote, ch'a te per gli tuoi merti
Per lo fparfo tuo sangue era dovuta,
E gia da lui promeffa, or ti ritoglie:
E de l'una, e de l'altro erede, e fpofo
Faffi un'efterno? O và così delufo,

E

per ingrati la persona, e l'alma
Inutilmente a tanti rischj esponi.
Và, fà ftrage de'toschi. Và, difendi
I tuoi latini, e'n pace gli mantieni.
Quefto mi manda apertamente a dirti

La

gran faturnia Giuno. Arma, arma i tuoi; Preparati a la guerra. Esci in campagna, Afsagli i frigj, e snidagli dal fiume, Ch'an di gia prefo: ei lor navilj incendi. Dal ciel ti fi comanda. E fe Latino A le promiffion non corrisponde; Se Turno non accetta, e non gradifce

Ne

per fuo difensor, ne per fuo genero; Pruovi qual fia ne l'armi; e quel ch'importi Averlo per nemico. Al cui parlare

Il giovine con beffe, e con rampogne
Così rispose: io non fon, vecchia, ancora
Come te fuor de' sensi. E ben fentita
Ho la nuova de' teucri, e me ne cale
Piu che non credi. Non però ne temo
Quel che tu ne vaneggi. E non m'ha Giuno
(Penfo) in tanto dispregio, e'n tale oblìo.
Ma tu da gli anni rimbambita, e scema
Entri folle in pensier d'armi, e di stati,
Ch'a te non tocca. Quel, ch'è tuo mestiero,
Governa i tempj: attendi a i fimolacri;
E di pace penfar lascia, e di guerra

A chi di guerreggiar la cura è data.
Furia a la Furia questo dire accrebbe,

Sì, che d'ira avvampando, ella il fuo volto
Riprefe, e rincagnoffi. Ed ei ne gli occhj
Stupido ne rimafe, e tremò tutto.
Con tanti ferpi s'arruffò l'Erinne,
Con tanti ne fischiò, tale una faccia
Le fi fcoverfe. Indi le bieche luci
Di foco accefa, la viperea sferza
Gli girò fopra : e ficcom'era immoto
Per lo ftupore; ed a piu dire inteso;
Lo rifofpinse. E i fuoi detti, e i fuoi scherni
Così rabbiofamente improverogli :

Or vedrai ben, fe rimbambita, e fcema
Sono entrata in penfier d'armi, e di stati,
Ch'a me non tocchi. E fe fon vecchia, e folle.
Guardami, e riconoscimi, ch'a quefto
Son dal tartaro uscita : e guerra e morte
Meco ne porto. E ciò detto avventogli
Tale una face, e con tal fumo un foco,
Che fe' tenebre a gli occhj, e fiamme al core.
Lo spavento del giovine fu tale ;
Che rotto il fonno, di fudor bagnato
Si trovò per angoscia il corpo tutto.
E ftordito forgendo, arme d'intorno
Cercoffi, armi gridò, d'ira s'accefe,

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